Introduzione / Introduction
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THE VOICE OF MUSIC ... LA VOCE DELLA MUSICA
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A.O.R.

J-K

JaR (JAY GRAYDON / RANDY GOODRUM) - SCENE 29 (2008)

Con gli ultimi standard di eccellenza risalenti a Morph The Cat di Donald Fagen e ai demo centellinati dai GG/06, l’inatteso “esordio” dei JaR si impone in scioltezza come evento dell’anno. Solo l’epidemia di I.C.S. (Indottrinamento Collettivo Sistematico) diffusa dalle radio italiane rende necessario ricordare chi siano Jay Graydon e Randy Goodrum: in sostanza, ciascuno per proprio conto, i due fuoriclasse hanno prodotto album storici, scritto canzoni stupende, suonato assoli memorabili per Steely Dan, Steve Kipner, Manhattan Transfer, Dionne Warwick, Al Jarreau, Michael McDonald, George Benson, Toto, Chicago. Coi fasti del fenomeno A.O.R. ormai lontani, sorprendersi piacevolmente per un nuovo CD è sempre più raro: nel caso di Scene 29, il clamore della notizia è accresciuto dall’alto livello della musica. I pezzi sono tutti magnifici: tra la raffinata atmosfera latin-jazz di Cure Kit, il familiare ritmo “against nature” di Call Donovan, l’orecchiabile tema di Make Somebody, le seducenti armonie di Your Heartbreak, l’ipnotica spirale sonora di Crumble Down, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Le emozioni più forti arrivano dalla chitarra di Graydon, la più bella mai udita in ambito pop, ancora in forma smagliante [i più giovani riascoltino i suoi epici fraseggi su Peg (Aja) e The End (Knock The Walls Down)], e dall’inesauribile abilità di Goodrum, premiato artigiano della canzone, nel cucire insieme note e parole. La qualità audio, in linea con la tradizione del “genere”, è stratosferica. - B.A.

Consulenza: Lorenzo 7Panella


SCOTT JARRETT - WITHOUT RHYME OR REASON (1980)

BILLY JOEL - TURNSTILES (1976)


BILLY JOEL - THE STRANGER (1977) FOREVER YOUNG

Classico per tutte le stagioni, nel senso migliore di un pur frusto slogan, The Stranger è anche il capolavoro di Billy Joel. Al culmine della propria ispirazione, il cantautore del Bronx compila una memorabile scaletta - Movin’ Out (Anthony’s Song), The Stranger, Get It Right The First Time - in cui qualunque preferenza personale è lecita. In un’ideale classifica delle grandi canzoni post-Beatles, accanto a Life On Mars? di David Bowie e I’m Not In Love dei 10cc, dovrebbe svettare Just The Way You Are: uno stile squisito in equilibrio tra pop e jazz, il timbro perlato del piano elettrico, le sobrie rifiniture degli archi, parole tanto semplici quanto sublimi - … don’t go trying some new fashion, don’t change the color of your hair, you always have my unspoken passion, although I might not seem to care, I don’t want clever conversation, I never want to work that hard, I just want someone that I can talk to … - strofa e inciso magistralmente incorniciati nel riff esposto dal sax alto di Phil Woods che, dopo la felice esperienza con gli Steely Dan (Katy Lied), per la seconda volta nobilita il fatuo mondo della “musica leggera” con uno dei suoi divini fraseggi … tutto concorre a trasfigurare quel “così come sei” nella ballad definitiva, originale anche rispetto alle innovazioni stilistiche di Burt Bacharach o Jimmy Webb. A dispetto delle tante cover, quella dell’autore rimane l’insuperata versione del grande standard. Viceversa, interpretando She’s Always A Woman, Lynda Carter (Portrait) ne propose un grazioso contraltare femminile: proprio lei, Wonder Woman, indiscussa protagonista dei primi, teneri esercizi di onanismo per chiunque sia stato adolescente negli anni Settanta. Con lo sprezzo del ridicolo tipico della categoria (dossier I / II / III) e l’ironia scipita dei guitti mediocri, i “giornalisti specializzati” - già qui dovremmo sigillare occhi e orecchie dei bimbi presenti - Jimmy Guterman e Owen O’Donnell hanno inserito Billy Joel nell’appendice del loro “libro” (The Worst Rock n’ Roll Records Of All Time: A Fan’s Guide To The Stuff You Love To Hate!) riservata ai peggiori artisti rock. Non ridete: nell’elenco c’è anche Paul McCartney … - B.A.

Se Turnstiles conteneva New York State Of Mind - poi ripresa da Mark/Almond (To The Heart), Barbra Streisand (Superman) e Shirley Bassey (All By Myself) - The Stranger è passato alla storia per Just The Way You Are, una canzone che chiunque vorrebbe aver scritto e chiunque potrebbe cantare sbagliando giusto un paio di parole. Ma dietro la sua spaventosa notorietà, c’erano altre inquadrature dell’elegante visuale di New York che Billy Joel riuscì a riassumere uscendo la sera [Movin’ Out (Anthony’s Song)], entrando in un ristorante (Scenes From An Italian Restaurant), immaginando morti precoci (Only The Good Die Young) e chiudendo con una galleria di sogni (Everybody Has A Dream). - Enrico Sisti


BILLY JOEL - 52nd STREET (1978)

BILLY JOEL - GLASS HOUSES (1980)

BILLY JOEL - THE NYLON CURTAIN (1982)

BILLY JOEL - AN INNOCENT MAN (1983)

BILLY JOEL - THE BRIDGE (1986)

ELTON JOHN - A SINGLE MAN (1978)

DON JOHNSON - HEARTBEAT (1986)

MICHAEL JOHNSON - THE MICHAEL JOHNSON ALBUM (1978)

MICHAEL JOHNSON - DIALOGUE (1979)

MICHAEL JOHNSON - YOU CAN CALL ME BLUE (1980)

MICHAEL JOHNSON - HOME FREE (1981)

JOLIS & SIMONE - JOLIS & SIMONE (1979)


RICKIE LEE JONES - RICKIE LEE JONES (1979) FOREVER YOUNG

Gli atteggiamenti ingenuamente “bohémien” e l’amicizia con Tom Waits depistarono una parte del pubblico, negando a molti ascoltatori il piacere di apprezzare un disco eccellente: l’esordio di Rickie Lee Jones combinava folk, jazz, West Coast, A.O.R. e portava una ventata di freschezza nel deprimente panorama deturpato da punk, disco-music e riflusso. I diversi aspetti che emergono lungo l’album - talvolta in uno stesso brano - delineano l’irrequieta personalità della fascinosa cantautrice: Young Blood trasmette piacevoli vibrazioni pop propagate dal saltellante basso di Willie Weeks; On Saturday Afternoons In 1963 è una nostalgica ballad su cui scorrono i fotogrammi consunti del passato; l’andatura felpata di Weasel And The White Boys Cool e il boogie scanzonato di Danny’s All-Star Joint sottolineano le (dis)avventure di emarginati e balordi, figure ricorrenti nel repertorio della Jones; Night Train coglie una madre disperata in fuga con il suo bambino; sul singolo Chuck E’s In Love una chitarra acustica suonata in stile “slap” dialoga con la batteria vivente di Steve Gadd, per raccontare una deliziosa storia d’amore con finale a sorpresa; Easy Money è un blues da saloon, di cui Lowell George offrì una travolgente versione R&B (Thanks I’ll Eat It Here); sospesa in una dimensione onirica, scandita da un ritmo pigro e da accordi crepuscolari, The Last Chance Texaco crea una suggestiva atmosfera da ultima spiaggia. Il motivo per cui Company non sia diventata uno standard è uno di quei piccoli misteri destinati a restare insondabili per sempre: una luminosa gemma pianistica che aspetta ancora un interprete all’altezza di Rickie. Tra gli ospiti di lusso vanno segnalati almeno Jeff Porcaro e Michael McDonald. - B.A.


RICKIE LEE JONES - PIRATES (1979)

RICKIE LEE JONES - THE MAGAZINE (1984)

RICKIE LEE JONES - FLYING COWBOYS (1989)

RICKIE LEE JONES - POP POP (1991)

RICKIE LEE JONES - TRAFFIC FROM PARADISE (1993)

RICKIE LEE JONES - IT’S LIKE THIS (2000)


MARC JORDAN - MANNEQUIN (1978) FOREVER YOUNG

Durante l’affannosa ricerca di una nuova formula, condotta insieme a Dane Donohue, Ned Doheny e qualche altro pioniere, Marc Jordan scovò in soffitta alcune anticaglie (un 45 giri Motown, un vecchio LP Blue Note, il sax ammaccato del nonno, la chitarra impolverata di un figlio dei fiori), che decise di riverniciare con i colori carichi di un telefilm anni '70. L’oasi A.O.R. accolse i profughi perseguitati durante gli anni del punk e della disco-music. La prima ristampa CD di questo album, pubblicata dalla Warner giapponese, era del tutto insoddisfacente a causa di una pessima resa sonora. Con felice intuizione, Jordan ha ri-masterizzato i nastri, restituendoci il suo primo capolavoro in tutto il suo splendore (etichetta LA CALIFUSA). Per questo, sempre sia lodato. Sebbene A Hole In The Wall sia generalmente considerato l’opera della maturità di Marc, il sound di Mannequin conserva un sapore unico, inimitabile. Dai brillanti arrangiamenti di Survival e Red Desert, alle sentite interpretazioni “confidenziali” di Only Fools e Dancing On The Boardwalk, passando per i riverberi solari di Jungle Choir e Marina Del Rey, si arriva ai due brani finali del disco: piano elettrico, contrabbasso, piatti e sax impostano la giusta atmosfera per One Step Ahead Of The Blues, imprevista deviazione jazz che lascia il segno anche grazie all’ispirato tenore di Tom Scott; sulle malinconiche note di Lost Because You Can’t Be Found si può ballare l’ultimo lento o, semplicemente, restare sdraiati al buio e premere il tasto “repeat”. - B.A.


MARC JORDAN - BLUE DESERT (1979)

Blue Desert è una felice combinazione ottenuta attraverso il riciclaggio di materiali con cui Marc Jordan ha rigenerato la canzone popolare. Il nuovo stile venne definito nei modi più bizzarri - si veda l’introduzione alla sezione A.O.R. - ma, almeno per un verso, la sigla in questione si rivelò azzeccata: ripudiando una volta per tutte i giornalisti, il rock diventava maggiorenne. Basta con le nenie costruite su tre accordi. No all’ipocrisia dell’inettitudine camuffata da “spontaneità”. Fine dei presunti “messaggi” contenuti nei testi. La musica si arricchisce di progressioni armoniche più sofisticate e imprevedibili, di assoli suonati pensando al jazz e, finalmente, le parole di una canzone servono soprattutto ad apprezzare il timbro vocale dell’interprete. Il secondo album di Marc Jordan è un autentico paradigma dell’unica “new wave” che il rock abbia conosciuto (a parte la rivoluzione progressive degli anni '70). Mentre Marc impaginava sofferte storie “private” sopra splendidi arrangiamenti fusion, Jay Graydon curava la produzione con pignoleria degna di un costruttore d’auto teutonico, offrendo saggi magistrali del proprio talento con la 6 corde (Bebop): emozionanti fughe elettriche (I’m A Camera; Twilight; Tattooed Lady; Release Yourself) si alternano a uno spettacolare ricamo di chitarra classica stile Earl Klugh (Beautiful People). Qua e là spunta qualche v.i.p. (Bill Champlin, Jeff Porcaro, Pete Christlieb, Michael Omartian, Jim Keltner etc.), e le finezze strumentali si susseguono. Un plastico volteggio del sax di Ernie Watts si ascolta sulla stupenda Generalities, mentre il flicorno di Chuck Findley improvvisa con lirismo sulle raffinate partiture di Lost In The Hurrah, probabilmente la più amata creazione di Jordan. Per vivere bene questo disco non è necessario, però aiuta. - B.A.


MARC JORDAN - SECRETS (LIVE AT EL MOCAMBO) (1981)


MARC JORDAN - A HOLE IN THE WALL (1983) FOREVER YOUNG

È possibile che il suono levigato e tecnologicamente perfetto di questo disco abbia lasciato un po’ di amaro in bocca a chi aveva scoperto Marc Jordan attraverso l’inedita e schietta atmosfera di Mannequin. In ogni caso, col senno di poi, e di fronte a dieci canzoni di questo livello, anche i soliti incontentabili considerano ormai A Hole In The Wall meritevole di figurare accanto a The Nightfly di Donald Fagen o Angel Heart di Jimmy Webb: cosa sarebbero stati gli anni Ottanta senza queste ancore di salvezza, senza questi preziosi attimi di sollievo rispetto all’orrore imperante? Lasciato in braghe di tela dalla Warner, Marc inizia un umiliante pellegrinaggio da un’etichetta all’altra (tragica esperienza condivisa da molti grandi protagonisti dell’A.O.R.) e dopo un ottimo live pubblicato dalla RCA giapponese (Secrets / Live At El Mocambo) approda provvisoriamente alla nipponica Sound Design. I saggi produttori del Sol Levante sanno di avere di fronte un artista vero e gli danno carta bianca. Tanto per cominciare, Jordan fa sedere dietro i tamburi lo specialista Mike Baird, a cui affianca alcuni 'mostri' di studio californiani, primi fra tutti Richard Page e Steve George ai cori. La chitarra di Steve Lukather introduce e domina Slipping Away, scritta insieme a Steve Kipner, cronaca di una fine imminente (la solita ‘lei’ insofferente che se ne vuole andare). Margarita vi farà innamorare al primo ascolto: l’ingenua messicana a cui ‘strangers and lovers’ hanno spezzato il cuore è protagonista di una storia resa memorabile dal raffinato chorus affidato ai Pages, dal sax di Ernie Watts e da un romantico Marc Jordan che tenta a tutti i costi di consolare la ragazza: “... nobody knows you / they just call out a name / nobody loves you / they think that love's a game / but I know you / you broke my heart / it's just bad luck that keeps us apart ...”. L’indomito temperamento rock di Marc emerge con prepotenza su A Hole In The Wall, in cui il ritmo scandito dal piano elettrico e i lancinanti inserimenti della chitarra disegnano un'atmosfera che asseconda benissimo la carica drammatica di questa title-track. Intitolare un nuovo brano It’s Only Love, come il classico di John Lennon (su Help!) è un’imprudenza che farebbe tremare i polsi a chiunque. Marc Jordan è caduto in piedi grazie al fascino di una tenera ballad composta insieme a David Foster. Where Did We Go Wrong e Love Like A Wheel sono due ghiottonerie pop-rock, impreziosite dagli arrangiamenti fiatistici dell’artigiano Jerry Hey (la seconda firmata da Jordan con Ali Thomson, fratello del bassista dei Supertramp, Dougie). Dance With Me, un lento impeccabile, ripropone l’ossessivo invito a ballare che aveva caratterizzato Mannequin, mentre la stupenda e misteriosa Thieves contiene alcuni incomprensibili accenni al muro di Berlino di cui, in fondo, non ci importa molto. Un album così doveva chiudersi in modo speciale, ed ecco l’immancabile tocco di classe: una bruciante, fulminea canzone che tanto potrebbe insegnare a chi è ancora convinto che il “vero” rock debba essere per forza rozzo. Ritmicamente caratterizzata dalle tipiche frasi spezzate di Jay Graydon, Hold On vola via in appena tre minuti, e si consuma rapidamente passando dalle strofe cantate da Marc fino al melodico assolo di Jay, che lancia il coro finale dei Pages. Degna conclusione di un’opera d’arte popolare contemporanea. - B.A.

La sua musica non ha nulla da invidiare alle sequenze di accordi con le quali Stephen Bishop ha sedotto il mondo: It’s Only Love potrebbe sostituirsi a It Might Be You (cfr. Tootsie) senza farla rimpiangere. Siamo sullo stesso autobus che ci ha sballottato fino a The Nightfly e all’energia meticcia di Michael McDonald. A Hole In The Wall è un album straordinario, dal quale giungono segnali rincuoranti, indicazioni e suggerimenti (Slipping Away; Love Like A Wheel; Where Did We Go Wrong; Margarita). - Enrico Sisti


MARC JORDAN - RECKLESS VALENTINE (1993)

MARC JORDAN - THIS IS HOW MEN CRY (1999)

MARC JORDAN - MAKE BELIEVE BALLROOM (2004)

MARC JORDAN - CRUCIFIX IN DREAMLAND (2010)

MARC JORDAN - ON A PERFECT DAY (2013)

ERIC KAZ - IF YOU’RE LONELY (1972)

KEANE - KEANE (1981)


RAY KENNEDY - RAY KENNEDY (1980) FOREVER YOUNG

Il prematuro trapasso di Ray Kennedy ci offre l’occasione per ricordare un artista che, col suo album omonimo del 1980, firmò una preziosa pagina dell’indimenticabile stagione A.O.R.: il proficuo supporto di Jack Conrad, co-autore di quasi tutti i brani, la smagliante produzione di David Foster, il lussuoso contributo di specialisti come Mike Baird, Jeff Porcaro, Bob Glaub, Mike Porcaro, Steve Lukather, Jai Winding, una voce acuminata, roca e potentissima per una manciata di canzoni impetuose, melodiche, raffinate, originali anche in quel circoscritto ambito stilistico. Se l’irruenza ritmica di It Never Crossed My Mind, Can’t Seem To Find The Time, You Oughta Know By Now, Isn’t It Time? (già incisa dai Babys di John Waite) è scandita dalla proteiforme chitarra di Lukather, l’intensità delle ballad Just For The Moment e My Everlasting Love {ripresa con parole e titolo diversi da Bill Champlin [Tonight Tonight (Runaway)]} esalta l’eclettismo dell’interprete di razza. L’introduzione “a cappella” di Starlight deflagra in un sanguigno soul-boogie condotto dalle immacolate armonie del coro. Precedentemente registrata dai Beach Boys (Holland) e dai KGB* (KGB), Sail On Sailor sprigiona la propria valenza gospel in un arrangiamento spettacolare e ispirato. È un esercizio futile, ma qualche volta davvero non si può evitare di porsi il fatidico “what if?” … a noi capita quando ascoltiamo i dischi di Greg Guidry, David Roberts, Far Cry, Maxus, Ray Kennedy … e ci domandiamo: se invece di spacciare il letale Gioca Jouer presso i giovani più indifesi la “stampa specializzata” avesse promosso questa musica, la TV della P2 sarebbe comunque riuscita a indottrinare un intero paese per quasi mezzo secolo? La risposta, immancabilmente, ci getta nella più cupa costernazione … (P.S. - *L’effimero super-trio fondato da Ray Kennedy insieme a Barry Goldberg e Mike Bloomfield, con la prestigiosa collaborazione di Carmine Appice e Ric Grech.) - B.A.


GERARD KENNY - MADE IT THRU THE RAIN (1979)

GERARD KENNY - LIVING ON MUSIC (1981)

RICHARD KERR - RICHARD KERR (1976)

RICHARD KERR - WELCOME TO THE CLUB (1979)

RICHARD KERR - NO LOOKING BACK (1982)

CAROLE KING - TAPESTRY (1971)

CAROLE KING - WRAP AROUND JOY (1974)

CAROLE KING - THOROUGHBRED (1976)


STEVE KIPNER - KNOCK THE WALLS DOWN (1979)

Ma gli “addetti ai lavori” che scrivono la storia del rock (dossier II) hanno mai ascoltato l’assolo di Jay Graydon su The Ending? Naturalmente no … poi ti credo che “per valorizzare la musica italiana” ci si riduce a chiedere l’opinione di Biagio Antonacci. La verità è che nel 1979 uno sparuto drappello di artisti attivi negli Stati Uniti aggiornava la canzone d’autore con raffinati arrangiamenti fusion, svolgendo al tempo stesso lodevole opera di soccorso per chi era sopravvissuto a meningite punk e febbre da balera. Reclutato dal clan Foster/Graydon, Steve Kipner era uno degli artefici di quella rivoluzione e la sua firma è presente su diversi classici del genere [Nothin’ You Can Do About It, Cryin’ All Night, Bix (Airplay), Hard Habit To Break, If She Would Have Been Faithful (Chicago), Murphy’s Law (Al Jarreau), 20/20 (George Benson) etc.]. Il suo unico album in veste di titolare schiera Greg Mathieson, Michael Omartian, David Foster alle tastiere, la sezione ritmica dei neonati Toto [Jeff Porcaro (batteria), David Hungate (basso)] su (quasi) tutte le canzoni e Larry Carlton che incrocia la chitarra con Jay Graydon, questi anche regista del progetto. Tutti i dieci arrangiamenti in squisito stile A.O.R. hanno superato la prova del tempo, pertanto le singole predilezioni sono soggettive: lo scanzonato riff di Knock The Walls Down, romantico sketch tradotto in immagini sulla copertina (per dichiararsi all’avvenente vicina di casa, un allupato Kipner sfonda il muro dell’appartamento con un mazzo di fiori); le tre sofisticate ballad che valgono l’acquisto del CD (I’ve Got To Stop This Hurting You, Love Is Its Own Reward, Cryin’ Out For Love); lo spettacolare epilogo - The Ending, brano gemello del prologo The Beginning - la cui prodigiosa fuga elettrica colloca il busto in marmo del produttore accanto a quelli di Jimmy Page (Stairway To Heaven) ed Eric Clapton (While My Guitar Gently Weeps). [P.S. - Uno dei 45 giri tratti dall’album recava sul retro un brano inedito (I Had To Find It Out For Myself): grazie a una provvidenziale segnalazione del solerte connoisseur Lorenzo 7Panella, i discografici giapponesi hanno potuto includerlo nella ristampa CD del 2010.] - B.A.


DANNY KORTCHMAR - KOOTCH (1973)


ROBERT KRAFT - MOODSWING (1979) FOREVER YOUNG

La straordinaria somiglianza con Bruce Willis avrebbe potuto assicurargli una carriera di successo nel cinema. Invece Robert Kraft ha preferito il pianoforte e nel 1979 ci ha regalato una delle gemme più preziose estratte dalla miniera dell’A.O.R. - Perizia strumentale, arrangiamenti superlativi, strutture armoniche complesse a fronte di temi sempre cantabili: gli elementi caratteristici del nuovo genere ci sono tutti, ma l’inconsueta dimensione espressiva degli Ivory Coast, il raffinato quartetto elettro-acustico che accompagna Kraft nell’album, dona alle canzoni un suono assolutamente personale, liberando la musica da quell’involucro artificioso con cui talvolta si confezionano i dischi pur di ottenere un passaggio radiofonico in più. Il temperamento jazz di Robert affiora in tutta la sua spontaneità sulle scattanti A Jump For Miles e Who’s Seducin’ Who?, mentre la band scalda i muscoli con l’esercizio fusion di Hoverkraft. Il virile, seducente lirismo che attraversa Bon Voyage e Down In Flames si alterna all’ironica vitalità di False Start e Junction Boulevard. Rimarchevole la presenza di Phil Galdston e Peter Thom, in veste di produttori (Galdston) e coristi: i loro due introvabili album (American Gypsies; The More Things Change ...) continuano ad essere un mistero per il pubblico. È “politically correct” chiedere ai depravati di Musica! di mettere in prima pagina la questione dei Far Cry invece di quella pagliacciata del P.I.M.? - B.A.


ROBERT KRAFT - READY TO BOUNCE (1981) FOREVER YOUNG

Francamente siamo stufi di abbozzare ancora con gente che latra contro “file sharing” e “free download” solo perché Internet riesuma oggi quel che loro hanno buttato nel cesso trenta anni fa. Ad esempio, perché non dovremmo augurare le peggio cose a chi cestinò senza scrupoli Ready To Bounce di Robert Kraft e Sleeping With Girls di Stephen Bishop? Cosa hanno in comune questi album? Dal momento che una cronaca troppo dettagliata rischia di appannare le responsabilità, se permettete, sintetizziamo: un bel giorno, gli executive delle rispettive case discografiche - capoccetti e sottopancia strafatti di cocaina ma potentissimi - decisero che quella roba non andava pubblicata. Punto.
Ready To Bounce - Deciso a sfruttare gli attestati di stima riscossi col magnifico esordio, senza tuttavia scendere a patti sui contenuti, Robert Kraft si affida ancora a Phil Galdston dei Far Cry, chiedendogli di aggiungere un tocco di opulenza agli arrangiamenti per scongiurare l’ostracismo che la maledetta radio aveva riservato all’austera, finissima dimensione semi-acustica di Moodswing. Ecco allora lo sfarzo vocale di Carnegie Woogie, coi Manhattan Transfer al completo, l’ammiccante duetto con la bella Irene Cara su I Can’t Say No, gli irresistibili ritornelli post-swing di Groove Speed e Manhattan, oltre a un’incredibile parata di talenti che vede sfilare specialisti come Neil Jason, John Siegler, Chris Parker, Jon Herington e fuoriclasse come Michael Formanek, Randy Brecker, Bob Mintzer. I privilegiati che già conoscano Retro Active troveranno qui le tre versioni originali, anteriori e alternative di altrettante canzoni che furono rivisitate su quel capolavoro: On The West Side, Teach Me How To Kiss You, Single, Solo … come diceva uno bravo, doppio divertimento*. Il personalissimo approccio di Robert alla ballad - una delicata mescolanza di spleen incombente e sensualità trattenuta - risalta sulle stupende Don’t Turn Away, col prezioso sax soprano di Paul McCandless (nientemeno) e il violino di Ross Levinson che evoca la memorabile Down In Flames (Moodswing), e Rosette, tratta dall’ignoto musical Metropolitan Serenade, con la sezione ritmica in mano a Kenny Barron, Ron Carter, Billy Cobham (!!!) e il flicorno del carneade Joe Shepley che danza sull’inciso in ¾. Voto a entrambe: “10”. Ogni passaggio vi irretirà con la voce, lo stile, l’eleganza di un inimitabile, sofisticato artista diviso tra jazz e cinema. [P.S. - *La bancarotta della RSO aveva confinato Ready To Bounce in un mesto oblio giapponese: la RCA offrì a Robert l’opportunità di recuperare, rielaborare, incidere da capo e riproporre quelle idee in un progetto editoriale affine ma nuovo (dalla travagliata vicenda, forse, deriva il titolo Retro Active).] - B.A.

Consulenza: Lorenzo 7Panella


ROBERT KRAFT - RETRO ACTIVE (1982) FOREVER YOUNG

LPCDSebbene Moodswing rappresenti meglio il talento del sofisticato intrattenitore da piano-bar, questo album è il frutto più maturo della sua discografia, comunque troppo avara per un artista di questo livello. Aggiungete le inestimabili voci di Richard Page e Steve George alla produzione di Larry “Mr. 335” Carlton, ed ecco a voi Retro Active, uno dei più profumati “flowers in the dirt” miracolosamente sbocciati in mezzo alla melma degli anni ‘80. Data la peculiarità del personaggio, ci si può fare un’idea della sua musica immaginando uno stile a metà tra Peter Allen, altro purosangue allevato nell’atmosfera intima dei club, e Ben Sidran, per il copioso ricorso ad armonie e arrangiamenti di impronta jazzistica. In ogni caso, il riferimento va considerato come una pura indicazione. La tensione ritmica che innerva Heartless, What Price Glory?, On The West Side, You’re Blue Too (con Janis Siegel) e Single, Solo si attenua di fronte alla toccante sincerità di Can We Be In Love Again? e Let’s Hold Each Other Once More. La sezione fiati diretta da Jerry Hey asseconda l’indole cinematografica di Robert su Out With My Ex: in una situazione che evoca il Woody Allen di Annie Hall e Manhattan, fra bugie, imbarazzi e malcelate allusioni al sesso, la rimpatriata con una vecchia fiamma si conclude con un buco nell’acqua. Se esiste una giustizia, prima o poi qualcuno risponderà della censura inflitta ad autentici classici moderni come I Wonder What You’re Like e Teach Me How To Kiss You. Solidissime, come sempre, le fondamenta percussive gettate da Jeff Porcaro, Ed Greene e Rick Marotta. Il CD è stato ristampato con una copertina diversa (e meno originale) rispetto a quella del Long Playing. Dedicato a Monk. Se vi basta ... - B.A.


ROBERT KRAFT - QUAKE CITY (1989) FOREVER YOUNG

Cosa resterà degli anni Ottanta? Poca roba, oltre al “riflusso nel privato” e alle “città da bere”. In relazione alla musica, è necessario frugare tra le montagne di pattume alla ricerca di quei due, tre album a semestre degni di nota (quando va bene, jazz a parte). In chiusura di decennio, quasi a marcare la distanza siderale tra il proprio spessore artistico e il lugubre panorama circostante, una trinità di fuoriclasse - Godley & Creme (Goodbye Blue Sky), Robert Kraft (Quake City) - torna nell’arena per ricordare al pubblico, rintronato dalla TV, cosa sia lo stile: l’appello cadrà nel vuoto …
Quake City - Un doveroso chiarimento preliminare per i pochi sfortunati che ancora non conoscessero Robert Kraft: campione assoluto, maestro dell’amalgama tra fusion e canzone d’autore - ampiamente al livello di un Donald Fagen, di un Michael Franks, di un Ben Sidran - egli non ha ricevuto i giusti riconoscimenti a causa delle radio ridotte a sentina di ogni nequizia sonora. Dopo la spettacolare trilogia che lo aveva consegnato all’eternità (Moodswing, Ready To Bounce, Retro Active), Robert era rimasto fuori dal giro, forse incupito dai trionfi del Gioca Jouer. Il rientro costituirà motivo di imbarazzo per l’intera categoria della “stampa specializzata”, colta di sorpresa da un talento cui aveva preferito Vamos A La Playa e No Tengo Dinero. Assecondato da una compattissima band in cui spiccano Dave Chamberlain (basso) e Rick Marotta (batteria), Kraft snocciola una serie di stupendi bozzetti musicali, cogliendo brillantemente lo spirito degli vari temi affrontati: la rivoluzione letteraria americana (Beat Generation), un momentaneo smarrimento sottolineato dall’armonica di Bruce Willis (Lost In The Shuffle), un vivido ritratto femminile (O Eliza), il problema dei senzatetto (Homeless), splendori e miserie sullo sfondo della metropoli (Quake City), gossip sui divi del cinema (Rubber Neckin’), l’eterna giovinezza (Fountain Of Youth), il segreto della ballad perfetta (Stop Time). Ripensiamo avviliti a quel periodo terribile … ancora quella domanda irrisolta che ci ossessiona: «what if?». [P.S. - 1) Dal 1994 al 2012 Robert Kraft ricoprirà con successo l’incarico di presidente della Fox Music. 2) Per liquidare la questione, suggeriamo di prendere il sontuoso cofanetto Complete Kraft Box 1979-1989: cinque CD, c’è tutto.] - B.A.


KRIS KRISTOFFERSON - KRISTOFFERSON (ME AND BOBBY McGEE) (1970)

KRIS KRISTOFFERSON - THE SILVER TONGUED DEVIL AND I (1971)

KRIS KRISTOFFERSON - JESUS WAS A CAPRICORN (1972)

KRIS KRISTOFFERSON - WHOS TO BLESS AND WHOS TO BLAME (1975)

KRIS KRISTOFFERSON & RITA COOLIDGE - FULL MOON (1973)

KRIS KRISTOFFERSON & RITA COOLIDGE - BREAKAWAY (1974)

KRIS KRISTOFFERSON & RITA COOLIDGE - NATURAL ACT (1978)


LEAH KUNKEL - LEAH KUNKEL (1979) FOREVER YOUNG

Along the line of truly great singers: Billie Holiday, Don & Phil Everly, Aretha Franklin, James Taylor, Linda Ronstadt … listen to Leah Kunkel.- Art Garfunkel

Essere la pupilla di Art Garfunkel e Jimmy Webb dovrebbe garantire una certa visibilità. Eppure, l’asfissiante cappa di ignoranza che ci soffoca da oltre trent’anni ha avuto come risultato anche l’occultamento di un disco come questo. Chi paga i danni? Certo non Gino Castaldo, che nella sua impudente letterina natalizia (20 Dicembre 2001) ha promesso di tutto, eccetto le uniche cose che potrebbero restituirgli l’onorabilità: 1) una confessione piena; 2) il risarcimento in solido di tutte le costosissime edizioni giapponesi che abbiamo dovuto rintracciare in capo al mondo; 3) l’impegno solenne a cercarsi un lavoro diverso. In attesa di una sua auspicabile riqualificazione alla catena di montaggio, cerchiamo di recuperare il tempo perduto. Chi avesse la fortuna di trovare una copia di questo CD trascorrerà lunghi momenti di puro diletto, ascoltando una voce a cui non manca nulla: classe, profondità, “sex appeal” e un suono incantevole. Se a questo aggiungiamo l’affascinante ragazza ritratta sulle foto di copertina, ce n’è abbastanza per un travolgente “plastic love”, quel bizzarro sentimento che ci assale quando perdiamo la testa per una star. Agli appassionati non sfuggiranno le due canzoni di Stephen Bishop, che allora trasformava in oro qualsiasi cosa toccasse: presente anche sull’acclamato capolavoro Bish, A Fool At Heart è una sontuosa ballata tinta di soul, interpretata da Leah quasi filologicamente, anche se la chitarra acustica dell’autore è sostituita dall’impeccabile piano di John Jarvis; Under The Jamaican Moon diffonde la malia incantatoria del reggae senza adottarne il ritmo, in luogo del quale si leva un tema ipnotico e sinuoso, rincorso dall’acuminato sax tenore di Joe Farrell. La struggente melodia di Step Right Up è inguainata in un arrangiamento sobrio ma efficace, che armonizza splendidamente archi, sezione ritmica e il controcanto di Penny Nichols. Annegata in un mare di autocommiserazione, Losing In Love vanta un refrain micidiale e l’autorevole presenza di Jackson Browne ai cori. Anche l’approccio alle cover sortisce effetti straordinari: l’idea stessa di rileggere I’ve Got To Get A Message To You - sempiterno hit dei Bee Gees - va salutata con favore, ma il nobile gesto è persino esaltato da una versione misurata e intensa; If I Could Build My Whole World Around You è l’immancabile classico Motown, restaurato con i colori morbidi della scuola West Coast. Immaginatevi sedotti e abbandonati mentre Leah Kunkel cerca di consolarvi con una serenata pop: il miracolo si compie sulla dolcissima Step Out. Una simile cornucopia rischia di offuscare il valore di Souvenir Of The Circus, Don’t Leave These Goodbyes e Down The Backstairs Of My Life, che sono invece all’altezza di un album necessario soprattutto oggi. - B.A.


LEAH KUNKEL - I RUN WITH TROUBLE (1980)

 

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